martedì 28 febbraio 2017

Una delle situazioni più difficili con le quali un papà o una mamma deve, talvolta, confrontarsi, è, alla perdita di un figlio, di continuare ad assolvere al proprio ruolo genitoriale con gli altri, secondo Stephen Fleming la psicologo della York University.
Dal momento del decesso del loro bambino, i genitori si trovano ad affrontare due situazioni estreme di morte e vita, la soffocante perdita di un figlio e l’’esistenza che, comunque, deve continuare con le richieste e le esigenze quotidiane dei figli rimasti.
“La sfida con la quale i genitori devono scontrarsi è questa: Nel mezzo del dolore straziante, come si fa a smettere di essere genitori del bambino deceduto mentre si deve, contemporaneamente, lottare per continuare ad essere mamme o papà, capaci di soddisfare le esigenze degli altri figli?”
Fleming ha compiuto varie ricerche insieme a Jennifer Buckle, della Memorial University, con una serie di interviste in profondità a dei genitori che avevano perso un figlio e ne avevano anche uno o più di altri.
Tramite l’indagine hanno trovato che i genitori che devono semplicemente affrontare il lutto, non riescono a “riprendersi” dalla perdita.
Invece, il continuare ad assolvere al loro ruolo genitoriale, mentre cercano di elaborare il lutto, è un gesto profondamente rigenerativo perché aiuta le mamme ed i papà a “raccogliere i pezzi di fronte alla devastazione, ed a ridare un senso a se stessi non meno che a ricreare un senso della famiglia”, spiegano i due studiosi.
Ma ci sono due modi diversi di affrontare il dramma da parte delle mamme e dei papà.
“I papà tendono ad affrontare il dolore e la sofferenza servendosene in modo strumentale. Ritornano a lavorare, si impegnano a lavorare sempre più in nome della famiglia, e tendono a superare la paura di lasciare che gli altri figli vivano in un mondo pericoloso. I papà riescono in questa impresa molto ardua, prima di quanto facciano le mamme”, dice Fleming.
“L’atteggiamento delle mamme, è invece, di norma, molto diverso. Tendono a guardare e vivere il proprio dolore in modo più intuitivo, più focalizzato sui loro sentimenti intimi. E provano un terrore, quasi paralizzante, perché pensano che se un bambino può morire, anche tutti gli altri suoi figli potrebbero, analogamente, morire. Di conseguenza, le mamme, spesso vengono trascinate di nuovo nel loro compito materno dai figli sopravvissuti, con uno sforzo nettamente superiore rispetto ai papà.”
Continuare ad essere genitori dopo la morte di un figlio è un modo per riuscire a colmare il vuoto lasciato dal bambino deceduto e nel difficile tentativo di elaborare il lutto perché concentra il genitore non solo sul dolore provato ma innesca anche un meccanismo di compensazione tra la sofferenza stessa della perdita e la responsabilità di continuare ad essere mamme o papà.
“L’elaborazione del lutto dovuto alla perdita di un figlio”, secondo Fleming, “può provocare serie complicazioni psicologiche che vanno dalla depressione all’ansia generalizzata, allo stress post-traumatico. Troppo spesso, i genitori non vengono valutati per questi tipi di reazioni, dagli psicologi che li seguono e possono essere traumatizzati quando vedono uno degli altri figli ammalarsi”.
Un altro obiettivo della ricerca era di aiutare i genitori in lutto a rielaborare le aspettative che hanno nei propri confronti non meno che il loro impegno nei confronti del prossimo (in particolare delle altre persone care) e ruolo imposto a loro dal mondo esterno.
I risultati dello studio sono serviti per cercare di rassicurare i genitori spiegando a loro, per esempio, che la morte del figlio non vada tabuizzata, rimossa, ma anzi, che la soluzione migliore, per tutti, è di parlarne, di onorarne il ricordo, continuando a raccontare di lui ai rimanenti fratellini.
Un simile approccio può anche offrire una soluzione per evitare di gettarsi nel lavoro per non pensare all’accaduto e per non dare seguito ad una serie di credenze e leggende metropolitane, ancora più dannose, che la perdita di un figlio necessariamente debba aumentare la probabilità che i genitori divorzino, e che i membri della famiglia sopravvissuti siano destinati separarsi.
È vero che i ruoli e le dinamiche familiari cambiano a fronte di un dramma tanto profondo, ed i genitori spesso hanno difficoltà ad essere costantemente presenti, a livello fisico ed emotivo, nelle vite dei loro figli, tuttavia, conclude Fleming, “genitori in lutto devono ricostruire la loro vita perché i loro figli ne hanno bisogno”.
Certamente la perdita di un caro è uno dei passaggi più crudi nella vita di una persona, ma quando muore un figlio, specie se in modo improvviso o assurdo, è una ferita ancora più difficile da rimarginare. Le reazioni possono essere molteplici, dalla chiusura in se stessi, alla perdita di interesse nella vita stessa, dall’insorgere di rimosrsi, sensi di colpa, alla rabbia ed il rancore verso tutti, dall’invidia o, magari, la cattiveria per chi è felice, al disarmante senso di impotenza, di pessimismo, di nichilismo.
Ma c’è anche chi cerca di farsi forza, di reagire, chi si impegna a vivere anche per il defunto, per onorare la sua memoria, per testimoniare che, comunque, il nonsenso della morte non riuscirà a rescindere il legame unico, l’amore che è il senso vero ed ultimo della vita…
Ancora una volta, la cura migliore è l’empatia, il confronto, il dialogo, il lasciarsi abbracciare dall’amore degli altri senza opporre resistenze, perchè, infondo, siamo tutti umani, infondo dobbiamo tutti morire, ma possiamo e dobbiamo tutti vivere, non solo per noi stessi, ma anche per chi ci ha lasciati e per tutti gli altri…

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